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La qualificazione giuridica del calciatore dilettante nelle procedure fallimentari

La qualificazione giuridica del calciatore #dilettante nelle #Procedure Fallimentari
 

La figura del calciatore dilettante è da sempre caratterizzata da un assoluto vuoto di tutela a causa del fatto che non esiste né nell’ordinamento sportivo né in quello civile nazionale, una disciplina giuridica compiuta, essendo regolati solo alcuni aspetti specifici, in particolare di diritto tributario.

La Legge n. 91 del 1981 sul professionismo sportivo, infatti, si è limitata a definire la categoria dei calciatori professionisti, individuando nella continuità, nell’onerosità e nella qualificazione da parte della Federazione d’appartenenza, i caratteri che la prestazione dell’atleta deve avere per potersi configurare il professionismo sportivo.

Non si è fatto, tuttavia, accenno alla più ampia categoria dei calciatori dilettanti, che, pertanto, si devono ritenere esclusi dall’applicabilità della normativa.

Anche le N.O.I.F. (Norme Organizzative Interne della F.I.G.C.), a livello federale, si astengono dal fornire una definizione chiara della categoria dilettantistica, aggiungendo all’art. 29 comma 2 che: “Per tutti i calciatori “non professionisti” è esclusa ogni forma di lavoro, sia autonomo che subordinato”.

A differenza di quanto accade per i professionisti, pertanto, tutti i calciatori dilettanti non potranno stipulare alcun contratto individuale di lavoro con le società per le quale sono tesserati, né tantomeno potranno ricevere da queste ultime somme o altre erogazioni a titolo di retribuzione.

Ferma restando tale esclusione, la normativa federale prevede (articolo 94 ter) l’obbligo per i calciatori non professionisti tesserati per società partecipanti ai Campionati Nazionali della L.N.D. (Lega Nazionale Dilettanti), di sottoscrivere con queste ultime degli accordi economici annuali relativi alla prestazione sportiva che verrà fornita.

Da queste premesse sul tema sembra essere del tutto pacifica la natura chirografaria del credito dei calciatori dilettanti in una possibile procedura fallimentare che coinvolga una società di calcio relativamente al mancato pagamento del corrispettivo pattuito negli accordi economici sopraccitati (eventualità, purtroppo, neanche troppo remota, considerati gli svariati esempi di apertura di procedure fallimentari nei confronti di società di calcio avvenuti negli ultimi anni).

Sul punto, tuttavia, a parer dello scrivente, è doveroso soffermarsi esaminando il tenore dell’accordo economico riconosciuto dalla F.I.G.C. e delle pronunce giurisprudenziali in merito che si sono susseguite nel tempo.

Infatti, dalla disamina dell’accordo economico che viene sottoscritto dal calciatore dilettante e dalla società, emergono chiaramente indici di subordinazione, a prescindere dall’indicazione nello stesso dell’espressa esclusione di “ogni forma di lavoro subordinato”.

Tali indici si riscontrano innanzitutto all’art. 3 di detto accordo che prevede la possibilità per i calciatori di proporre un reclamo innanzi alla C.A.E. (Commissione Accordi Economici della Lega Nazionale Dilettanti) in caso di inadempienza della società; all’art. 5 che contempla la corresponsione della retribuzione all’atleta a cadenza pressoché mensile, ed ancora, all’art. 6 che prevede la possibilità di erogazione di sanzioni in caso di inadempimento contrattuale.

Ulteriormente confermativo in tal senso il fatto che i calciatori tesserati per una società dilettantistica abbiano l’obbligo di presenziare a tutti gli allenamenti della squadra nei luoghi indicati dalla società, nonché di partecipare alle gare ufficiali disputate dalla stessa.

La tesi della subordinazione dei calciatori qualificati come dilettanti, come detto, è stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di merito.

Sul punto, in particolare, preme richiamare l’ordinanza del Tribunale di Pescara del 18 ottobre 2001 (Foro it, 2002, I, 897), in cui si afferma testualmente che “Il tenore volutamente «universale» scelto dal legislatore (in riferimento all’art. 43 Dlgs 286/98) consente, poi, di ritenere che ogni attività di rilievo sociale costituisca oggetto di protezione, e non soltanto quella che rivesta un preminente significato economico-professionale. La distinzione (peraltro assai sfuggente nell’agonismo del nostro tempo) tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante”.

Anche la pronuncia del TAR Lazio (Sezione Terza – ter, 12 maggio 2003, n. 4103), esaminando la legittimità di una norma regolamentare della F.I.P., ha incidentalmente osservato che: “certamente la mancata applicazione al settore del basket femminile della legge 23 marzo 1981 n. 91 è la vera causa della vicenda quando, come nel caso in esame, appare difficile configurare come dilettantistica un’attività sportiva comunque connotata dai due requisiti richiesti dall’art. 2 (remunerazione comunque denominata e continuità delle prestazioni) per l’attività professionistica”.

Con riferimento all’irrilevanza del “nomen iuris” utilizzato dalle parti per la qualificazione del rapporto di lavoro sportivo è intervenuta anche la Suprema Corte che così testualmente si è espressa: “la qualificazione attribuita dalle parti al rapporto non ha valore determinante rispetto agli effettivi contenuti dello stesso, ben potendosi pervenire ad una diversa qualificazione, ove si dimostri che l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto” ed ancora: “nei casi in cui può essere ridotta, per il concreto atteggiarsi del rapporto, l’evidenza immediata della subordinazione, è lecito far riferimento a criteri complementari e sussidiari (“quali la collaborazione, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario predeterminato, il versamento, a cadenze fisse, di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato all’impresa dal datore di lavoro) i quali – se individualmente considerati… privi di valore decisivo – ben possono essere valutati globalmente come indizi probatori da parte del giudice di merito” (in tal senso Cass. 6114/1998).

È appena il caso di osservare, che la Corte di Giustizia europea da sempre ha stabilito che l’unico parametro di distinzione sia costituito dallo svolgimento di prestazioni sportive retribuite o non retribuite e, quindi, l’analisi deve essere incentrata sul dato di fatto concreto, indipendentemente dalla qualificazione giuridica attribuita dalla Federazione (in tal senso, Corte di Giustizia, sentenza dell’11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, Christelle Deliège contro Ligue francophone de judo et disciplines associées ASBL, Ligue belge de judo ASBL, Union européenne de judo e Francois Pacquée;  Corte di Giustizia, sentenza dell’8 maggio 2003, causa C-438/00, Deutscher Handballbund e. V. / Maros Kolpak).

In considerazione della giurisprudenza nazionale ed europea sopracitata, i crediti dei calciatori cosiddetti “dilettanti” potrebbero essere ritenuti alla stregua di quelli dovuti ai prestatori di lavoro subordinato e, di conseguenza, in ambito fallimentare, godere del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 1 c.c.

Dott. Luca Fortunato
Praticante Avvocato abilitato al patrocinio
Dipartimento Diritto Sportivo
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